Gianfranco Ravasi mi fece incontrare Qohelet nel 1988. Di ritorno dal mio lungo viaggio, ero in cerca di risposte sul senso della vita e su Dio. Quel Dio che mi rispedì nuovamente sulla terra per completare la mia reintegrazione.
Qohelet si presentò come l’ultimo Re del regno unificato di Giuda e Israele, Salomone. Ma avevo contezza che a Gerusalemme, in quel periodo, si era soliti attribuire opere letterarie a personaggi storici considerati sapienti. E chi meglio di Salomone, archetipo dei sapienti d’Israele, poteva rappresentare la saggezza che gli fu data direttamente da Dio? Dio disse a Salomone: poiché tu non hai chiesto per te lunga vita, né ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma l’intelligenza e la saggezza per agire con giustizia, io agirò attraverso le tue parole e ti darò un cuore saggio e intelligente per poter discernere ciò ch’è giusto.
E così accolsi Salomone e ascoltai le parole di quest’opera più originale e scandalosa dell’Antico Testamento, come la definì Ravasi.
Il Qoelet o Ecclesiaste è scritto in ebraico con alcune risonanze in aramaico e fa parte dei dodici libri sapienziali dell’Antico Testamento, detti Scritti o Agiografi. Il titolo completo dell’opera è Parole di Qoèlet.
Io, Qoèlet, fui re d’Israele a Gerusalemme. L’autore si presenta identificandosi con Salomone, ma non c’è accordo tra gli studiosi liberali e quelli conservatori, i primi negano la paternità al re d’Israele, mentre i secondi glielo attribuiscono. L’autore potrebbe essere anche uno scriba, votato all’insegnamento e allo studio. Qohelet comunque è un pseudonimo.
Il termine ebraico Qoèlet fa riferimento a un’assemblea (qahal), ma non si sa bene a quale tipo di assemblea si riferisca (liturgica, d’insegnamento, di popolo), né come vada interpretato (colui/colei che riunisce l’assemblea, o che parla all’assemblea, o che presiede l’assemblea). Essendo la radice ebraica declinata al femminile, qualcuno ha visto in questo poeta anonimo la figura di una donna.
Anche per quanto riguarda la datazione si possono fare solo delle ipotesi. Il libro è stato scritto intorno al 250-200 a.C. durante la dominazione dei Tolomei (successori di Alessandro Magno) che per tutto il terzo secolo prima di Cristo hanno cercato di globalizzare il mondo di allora imponendo la cultura greca (ellenismo), una lingua comune (koinè) e il loro modo di vivere.
L’intenzione di Qohelet è quello di aiutare gli israeliti a non lasciarsi prendere dal benessere della cultura ellenistica, (durante la dinastia tolemaica), e di non guardare con nostalgia al tempo in cui Israele era grande con Salomone, perché l’estasi – il godere giustamente delle cose presenti – sta nel vivere alla presenza di Dio, a cui seguirà la ricompensa eterna nell’aldilà.
Le riflessioni di Qohelet sono le riflessioni di un credente che si allontana da Dio e non quelle di uno che non l’ha mai conosciuto. Per il credente, infatti, una volta conosciuto Dio e aver goduto della sua gloria, una volta allontanatosi, tutto diventa inutile, una vanità. Ed è il tema principale, la vanità di tutte le cose.
Il proposito che mi arriva, ascoltando la voce di Michele Placido che interpreta Qohelet, è quello di far risaltare la gloria del Signore rispetto all’ignoranza e alla limitatezza dell’uomo. L’autore cerca attraverso una profonda ricerca, di capire se c’è un’elevazione morale o progresso, per l’uomo lontano dal suo Creatore ed è costretto ad affermare che nessun bene creato può soddisfare in pieno l’anima.
Qohelet è un’opera che ha ispirato svariati artisti: Johannes Brahms, Robert Schumann, Pete Seeger (cantante folk statunitense) e anche il nostro cantautore Angelo Branduardi, nonché Petrarca e lo scrittore Luther Blissett.
Gli ebrei leggono il Qohelet durante la festa di Sukkot, una festa di pellegrinaggio della durata di otto giorni. Ricorda la vita del popolo di Israele nel deserto durante il loro viaggio verso la terra promessa, la terra di Israele. Durante il loro pellegrinaggio nel deserto vivevano in capanne (sukot). Sukot è la terza festa di pellegrinaggio durante cui tutti gli ebrei maschi sono obbligati a compiere un pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme. Si configura come un ringraziamento per i frutti del raccolto, poiché rappresenta la fine dei raccolti è considerata come un ringraziamento a Dio per la Natura, per i frutti che ha donato nell’anno trascorso.
L’ultimo capitolo, il dodicesimo, è quello che più mi ispira. I versi descrivono il declino dell’uomo nel tempo che si sta esaurendo.
Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza, prima che vengano i giorni tristi e giungano gli anni di cui dovrai dire: «Non ci provo alcun gusto»;
prima che si oscurino il sole, la luce, la luna e le stelle e tornino ancora le nubi dopo la pioggia;
quando tremeranno i custodi della casa e si curveranno i gagliardi e cesseranno di lavorare le donne che macinano, perché rimaste poche, e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre
e si chiuderanno i battenti sulla strada; quando si abbasserà il rumore della mola e si attenuerà il cinguettio degli uccelli e si affievoliranno tutti i toni del canto;
quando si avrà paura delle alture e terrore si proverà nel cammino; quando fiorirà il mandorlo e la locusta si trascinerà a stento e il cappero non avrà più effetto, poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna e i piagnoni si aggirano per la strada;
prima che si spezzi il filo d’argento e la lucerna d’oro s’infranga e si rompa l’anfora alla fonte e la carrucola cada nel pozzo,
e ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato.
Per Qohelet la vecchiaia è come un lungo inverno al quale non segue più la primavera, ma la fine di tutto e la discesa nella tomba.
Una grande tristezza emana questo capitolo che descrive la fine del vecchio signore e della sua casa, con il filo d’argento della vita che si spezza per sempre.
Quando l’uomo muore il suo corpo ritorna alla terra dalla quale è venuto e il suo spirito ritorna a Dio che glielo aveva dato in prestito. Di più Qohelet non sa dire e non si aspetta. Così la grande forza poetica di queste immagini suggella la terribile affermazione che fa da filo conduttore a tutto il libro: Vanità delle vanità, dice Qohelet, tutto è vanità!
Ma Qohelet presenta in maniera occulta il significato della morte e della rinascita che ritroviamo ance all’interno di un percorso iniziatico.
Qui è racchiuso il segreto dell’eternità, il ciclo continuo della vita: si nasce, si muore e si rinasce.
Se non viviamo nella luce, con gli occhi e la mente di un bambino, non supereremo i momenti bui e scuri della vita e periremo.
La morte è una livella e in questa lotta tra vita e morte, per far vincere la vita dobbiamo credere nel cresatore, nella rinascita.
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