E poi incontrai un maestro

E poi incontrai un maestro che indossava una camicia di lino biancastra con una sciarpa dorata e mi disse senza parlare che sarei rinato, ma prima dovevo morire. Così tutti i riti, conoscenze, credenze, carte divinatorie, sfere e cristalli si fermarono progressivamente. E non sapevo più chi fossi né da dove venissi e né dove fossi diretto.

Isolai i pensieri con muri invalicabili. E la collera, prese il sopravvento. E il cibo mutò, abbandonai la carne rossa e il maiale. La penna diventò pesante e la scrittura iniziò a discernere i contatti medianici.

Affidati. Mi consigliò una guida spirituale. Affidarsi è una consolidata e inafferrabile certezza interiore verso il Maestro e non ammette dubbi.

Quel dubbio che mi portò a scoprire il divino? a sentirmi libero? Ora, dunque, dovevo bandirlo?

La fede, quella forza a me tanto lontana e ora incomprensibile era la mia unica uscita.

Cos’è la fede? Chiesi a me stesso. Accogliere come vere le informazioni, di cui non si ha una conoscenza diretta, fondata sull’autorità altrui.

Autorità, quindi sottomissione, prigionia. Mi era proprio difficile tutto ciò.

Trasmutando questo concetto al trascendente o divino, la fede è aderire a un messaggio, o un annuncio, fondata sull’accettazione di una realtà invisibile, che non è manifesta ed è accolta come vera, nonostante l’oscurità che l’avvolge. Nella teologia cristiana, la fede è una delle tre virtù teologali, un dono divino, che dispone il credente ad abbandonarsi fiduciosamente nelle mani di Dio accettando la sua parola.

Rispetto al sapere, fondato sulla certezza consapevole della propria validità, la fede prende quindi dagli altri, ovvero dal di fuori, i propri contenuti, come avviene nelle religioni rivelate che attingono le loro dottrine da un dato di rivelazione.

Il rapporto tra fede e sapere divenne fonte di riflessione filosofica. La fede cerca, la ragione trova. E ancora la ragione cerca Colui che ha trovato. La fede coincide così con l’intuizione, cioè con l’illuminazione, elargita in dono dalla grazia divina, che consente di far luce non tanto sulla Verità, quanto sulla propria ignoranza: una consapevolezza dell’ignoranza senza la quale non vi sarebbe spinta a indagare il mistero.

Non si cercherebbe infatti la verità se non si fosse certi almeno inconsciamente della sua esistenza, secondo un tema di lontana ascendenza socratica e platonica.

Per fede s’intende la capacità di aprirsi a qualcosa di più di oltre. Si tratta di una capacità che non è data né dai sensi né dall’intelletto. La fede (in Deum) non ha oggetto. E’ il pensiero che ha un oggetto. Se la fede avesse un oggetto sarebbe un’ideologia, un frutto del pensiero; mentre la divinità affiora oltre il pensiero.

La credenza è invece la formulazione, l’articolazione dottrinale, compiuta ordinariamente da una comunità, che si è progressivamente cristallizzata in proposizioni, frasi, affermazioni e, in termini cristiani, dogmi. Credenza è l’espressione simbolica, più o meno coerente, della fede che spesso viene formulata in termini concettuali.

Diverse religioni affiancano la fede alla conoscenza: il caso più chiaro è forse quello dell’Induismo, che però non è una religione monoteistica e, quindi, non fa riferimento a un’unica combinazione di forma, nome della divinità. Dal punto di vista esclusivamente logico-dottrinale è impossibile che tutte queste religioni, con il loro bagaglio di credenze mutuamente incompatibili, siano vere.

L’Induismo cerca di superare tale problema suggerendo che le varie religioni non sono altro che modi diversi (Dharma) d’esprimere il contatto con la verità ultima, con tutte le difficoltà che ciò comporta. Si tratterebbe, in qualche modo, della possibilità che esistano percorsi diversi per raggiungere la stessa meta, vale a dire l’unione con la divinità. Questo metodo di approccio dell’Induismo alla diversità interna che lo caratterizza – concezione che permette all’ambiente induista il mantenimento dell’armonia tra le varie correnti – è stato sostenuto nel corso del tempo da molti religiosi che hanno intrapreso un cammino mistico sperimentando religioni diverse. Anche questi religiosi hanno affermato la sostanziale validità di tutte le religioni, in quanto non vi è alcuna differenza nell’esperienza ultima, poiché tutti i cammini religiosi conducono, attraverso percorsi diversi, al medesimo obiettivo finale: l’Amore.

Flotta templare

Nel giugno del 1308 un templare di nome Jean de Châlons testimoniò, sotto tortura, all’inchiesta papale sui Templari di Poitiers che i capi dell’Ordine fuggirono e, lui stesso, incontrò il fratello Gerard de Villiers che guidava cinquanta cavalli. Asserì che stava partendo per mare con diciotto galee e che il fratello Hugues de Châlons fuggì con l’intero tesoro del fratello Hugues de Pairaud.

Il mito della flotta templare emerge da tante speculazioni e, sembra, che abbia attirato fatti retroattivi per adattarlo.

Nonostante la narrativa ufficiale, l’Ordine del Tempio di Salomone non fu mai dissolto né estinto in nessun momento dopo il 1307 d.C.

La maggior parte delle risorse lavorative centrali, attrezzature, scritti e documenti dei Cavalieri Templari e la maggior parte dei suoi cavalieri, dame e sostenitori, fuggirono con successo dalla Francia, poco prima dell’infame raid dell’Inquisizione francese da parte del re Filippo IV.

I Templari erano stati avvertiti in anticipo dell’imminente incursione e avevano organizzato una flotta di diciotto navi galee, per lasciare Port La Rochelle, lasciando dietro di loro un paio di navi per evitare di sollevare sospetti sulla loro fuga. Questa testimonianza durante i processi specificò che Gerard de Villiers, il precettore di Parigi, era scappato con 50 cavalli e 18 navi. La documentazione storica lascia, senza dubbio, che il Gran Maestro Templare era consapevole che gli arresti erano imminenti (venerdì 13 ottobre 1307) ed è documentato che gli ordini di arresto erano datati 14 settembre, quindi i Templari avevano avuto un preavviso di quattro settimane. Con una scorta esaurita di beni utilizzabili, monete, oro, gioielli e altri beni commerciabili, i Templari fuggirono dall’area di persecuzione immediata prima che il martello potesse cadere.

La Regola dell’Ordine Templare comandava ai fratelli di difendersi a vicenda, con il dovere di proteggere l’ordine al costo della propria vita, se necessario. Per questo motivo, il Gran Maestro Jacques de Molay e un gruppo di cavalieri dedicati sono rimasti indietro, per evitare di destare sospetti, permettendo così alla maggior parte di scappare in salvo.  Solo 620 templari sono stati arrestati in Francia, dopo le incursioni del 1307 d.C. Gli storici stimano che ci fossero oltre 3.000 templari in Francia, a quel tempo. Oltre 2.000 fratelli templari armati ed equipaggiati, con i loro interi seguiti di scudieri, servi, cavalli, treni di bagagli e seguaci del campo fuggirono anche a bordo delle diciotto navi che lasciarono il porto di La Rochelle.

Gli studiosi concordano generalmente sul fatto che i Templari riuscirono a disperdere la maggior parte della loro ricchezza prima che gli scagnozzi del re arrivassero a confiscarlo. Le guardie reali avevano, così, trovato monasteri in gran parte abbandonati e successivamente avevano scoperto che le navi erano salpate. Altre piccole flotte templari nel sud e nel nord della Francia, le Fiandre e il Portogallo lasciarono anche il porto e navigarono nella leggenda. Dalle roccaforti dei Templari erano spariti anche i documenti e i registri dell’ex impero dell’Ordine.

La convinzione generale è che la flotta templare di La Rochelle andò in Scozia, ma la flotta che viaggiò in Gran Bretagna non fu una massiccia Armada. Quelli che credono che i rimanenti Templari siano fuggiti in Scozia ipotizzano che solo poche navi siano arrivate nell’area mentre le navi utilizzate non erano progettate per il trasporto a lunga distanza e il Templare è zoppicato via con pochissima ricchezza a bordo.

All’epoca La Rochelle era utilizzata dai Templari per l’importazione e l’esportazione di vino. Quindi, forse, tutti i templari si sarebbero trasferiti in alcuni barili decenti di vino da tavola. Altri teorici sostengono che quelle botti di vino avrebbero potuto contenere una varietà di oggetti preziosi. L’abbondanza di tradizioni templari e del Santo Graal in Scozia, indica un grande tesoro che si sposta dall’Europa continentale alla sicurezza nel nord delle Isole britanniche

Un’altra teoria interessante è che la flotta di La Rochelle si è diretta a Cipro e ha nascosto le reliquie rimanenti in un porto sicuro fino a quando non fossero state messe in sicurezza nuove navi. Queste nuove navi quindi salparono per la Terra Santa e furono sepolte lontano dall’avidità delle potenze europee. Certo, è molto difficile dimostrare che si sono verificati tali atti, ma sappiamo che Cipro era una volta di proprietà del Cavaliere Templare e che forse avevano amici potenti sull’isola che potevano aiutare a mantenere la flotta ei loro tesori al sicuro.

Un dato più probabile per la flotta templare di La Rochelle è che è stato affondato nella Manica prima che potesse dirigersi verso la Scozia o Cipro. Il Canale della Manica è una distesa d’acqua molto insidiosa, con forti correnti e condizioni atmosferiche irregolari. Se la flotta salpava con il maltempo ed era impreparata a causa del caos del tempo. Un certo numero di eventi avrebbe potuto affondare le navi inaffidabili che i templari avevano a La Rochelle. Le navi potrebbero essere state attaccate dai pirati nel Mediterraneo o nel Canale della Manica. In entrambe queste acque, era comune per le navi cadere preda dei pirati. Era un fertile terreno di caccia e rimase così fino all’ascesa delle grandi potenze coloniali nel sedicesimo secolo.

L’Ordine, senza più guerre sante da condurre, assunse una nuova forma ripiegando sulla finanza e il commercio. Alle diciotto navi che erano fuggite dal porto di La Rochelle, si unirono altri bastimenti templari, sia navi mercantili e sia galeoni armati. I Templari iniziarono così a solcare i mari del Mediterraneo e Atlantico, e iniziarono a guadagnare interessi e ricavi per l’ordine, per recuperare le perdite e diedero vita anche all’attività di pirateria.

Il pirata templare più famoso fu Roger de Flor (1266-1306). Il sergente templare Roger de Flor, conosciuto anche con il suo nome originale in tedesco di Rutger von Blume, era un capitano della flotta Templare. Dopo essere stato bandito dall’Ordine con l’accusa di estorcere denaro ai passeggeri durante l’assedio di Acri nel 1291, Roger fuggì a Genova, dove prese in prestito una considerevole somma dal Ticino Doria, acquistò una nuova nave e iniziò una carriera nella pirateria.

È interessante notare che le tombe templari erano spesso contrassegnate con lo stesso teschio e le stesse tibie incrociate del Jolly Roger, che svolazzavano sugli alberi delle navi per indicare pirati a bordo!

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Riflessioni martiniste

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Siccome gli uomini sono creature corporee, i sensi esterni sono sempre coinvolti. La costituzione antropica è tale, che l’espressione interna dell’anima cerca, allo stesso tempo, una manifestazione corporea.
Il rituale di apertura dei lavori esoterici, si avvale di simboli, segni e vibrazioni mediante i quali l’anima umana è sollecitata ad azioni spirituali che la uniscono a Dio.
Abbiamo quindi bisogno di segni visibili e sensibili per purificare il nostro cuore e nutrire il nostro desiderio di unione con il Dio invisibile. Essendo creature corporee, comunichiamo con segni esterni che diventano atti interni spirituali. In questa prospettiva, si mette in luce anche l’importanza dei gesti e atteggiamenti nel rito che portano al riconoscimento di Dio e della Sua sacra presenza per sollecitare i partecipanti ai lavori a una risposta di riverenza e devozione.
Platone definisce l’anima come forma sostanziale del corpo ed elabora la teoria “Ilemorfica”, per la quale ogni ente è composto di una forma – che è la sua attualità e si esprime nella definizione – e di una materia l’elemento potenziale suscettibile di ricevere una forma.
Con la dottrina dell’ilemorfismo universale, secondo la quale ogni aspetto della realtà è forma e materia: il corpo non è solo materia ma anche forma (forma della corporeità) e l’anima, come le intelligenze celesti, ha una materia in sé, esseri reali rivestiti come noi della forma sensibile.
San Tommaso respinge la teoria dei neoplatonici agostiniani che attribuivano all’anima umana e angelica una specie di materia spirituale e ribadisce la purezza della forma sostanziale aristotelica, anche se, egli aggiunge, la materia ha una sua caratteristica particolare, come materia signata di accogliere in sé la forma o l’anima, che è poi pienamente realizzata come attuale solo in Dio, mentre nell’uomo conserva ancora un elemento di potenzialità e limitatezza.
In altre parole è depositario delle virtù prime che l’uomo ha perduto.
L’uomo era un tempo un essere spirituale. E’ sceso sulla terra allorché privato delle sue ali spirituali e fu avvolto in un corpo sensibile. Immerso nella sua fisicità l’uomo non è in grado di ricongiungersi al Principio, ma è destinato a liberarsi di questo corpo fisico, per risalire di nuovo nei mondi dell’anima e dello spirito. Se noi indagassimo sull’interiorità umana, anziché aspettare la morte fisica, verremo a conoscere lo spirito e l’anima dell’uomo così com’era allora, quando nacque dal grembo del mondo spirituale.
Ecco, la mente dell’uomo si riscopre come strumento per sceverare tutti i misteri della creazione
e cerca incessantemente intorno a sé.
L’uomo, per Louise Cloude de S. Martin, è la somma di tutti i problemi. È lui stesso un problema, l’enigma degli enigmi. Non si può comprendere l’uomo per mezzo della natura, ma la natura per mezzo dell’uomo. Louis Claude de Saint Martin invita l’uomo a considerare se stesso e ad analizzare la realtà che avrà scoperto in tal modo. Così l’uomo scoprirà il suo vero rango e percepirà l’armonia del mondo secondo il famoso adagio di Delfo. «Conosci te stesso e conoscerai l’Universo e gli Dei!». L’uomo, malgrado la sua degradazione porta sempre con sé evidenti i segni della sua origine divina. Incatenato sulla terra come Prometeo, esiliato dal suo regno, quale fine si potrà proporre se non quella della reintegrazione.
Questa è la reintegrazione: una ricostruzione dell’uomo nella sua forma originale, unitaria, così com’era prima della caduta.

Dall’accensione del candelabro a tre luci diverse, il Trilume, noi arriviamo alla comprensione, e a ricordarci, del grande principio unico che è l’Assoluto. Le tre luci non danno che un’unica luce.
Tutto riconduce alla lettera ebraica Aleph, simbolo dell’uomo e di Dio.
Aleph segna la soglia tra il manifesto e l’inconoscibile, tra il segreto e il risvelato, fra il potenziale e l’attuale.
Rappresenta la figura di un uomo che guarda il cielo e la terra, per significare che il mondo inferiore è specchio e mappa di quello superiore.
Sottolinea l’importanza dello studio della verità esoterica che secondo il pensiero ebraico è il più nobile che l’essere umano possa compiere.
Aleph è il numero 1, l’unità assoluta di Dio, e nell’uomo, il numero “Uno” si riferisce al valore prezioso dell’individualità realizzata e dell’unicità dell’anima umana.
L’Uno è la base e la chiave di ogni altro numero. L’unità di Dio è però un fatto che trascende ogni concetto matematico. È l’unificazione di tutte le varie unità. Ogni parte (anima) contiene il tutto (Dio), ciò nonostante il tutto (Dio) trascende la somma delle parti, e nessuna anima da sola potrà mai esaurire la conoscenza dell’infinita perfezione divina.

Invito ad ascoltare: Qohelet.

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Gianfranco Ravasi mi fece incontrare Qohelet nel 1988. Di ritorno dal mio lungo viaggio, ero in cerca di risposte sul senso della vita e su Dio. Quel Dio che mi rispedì nuovamente sulla terra per completare la mia reintegrazione.

Qohelet si presentò come l’ultimo Re del regno unificato di Giuda e Israele, Salomone. Ma avevo contezza che a Gerusalemme, in quel periodo, si era soliti attribuire opere letterarie a personaggi storici considerati sapienti. E chi meglio di Salomone, archetipo dei sapienti d’Israele, poteva rappresentare la saggezza che gli fu data direttamente da Dio? Dio disse a Salomone: poiché tu non hai chiesto per te lunga vita, né ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma l’intelligenza e la saggezza per agire con giustizia, io agirò attraverso le tue parole e ti darò un cuore saggio e intelligente per poter discernere ciò ch’è giusto.

E così accolsi Salomone e ascoltai le parole di quest’opera più originale e scandalosa dell’Antico Testamento, come la definì Ravasi.

Il Qoelet o Ecclesiaste è scritto in ebraico con alcune risonanze in aramaico e fa parte dei dodici libri sapienziali dell’Antico Testamento, detti Scritti o Agiografi. Il titolo completo dell’opera è Parole di Qoèlet.

Io, Qoèlet, fui re d’Israele a Gerusalemme. L’autore si presenta identificandosi con Salomone, ma non c’è accordo tra gli studiosi liberali e quelli conservatori, i primi negano la paternità al re d’Israele, mentre i secondi glielo attribuiscono. L’autore potrebbe essere anche uno scriba, votato all’insegnamento e allo studio. Qohelet comunque è un pseudonimo.

Il termine ebraico Qoèlet fa riferimento a un’assemblea (qahal), ma non si sa bene a quale tipo di assemblea si riferisca (liturgica, d’insegnamento, di popolo), né come vada interpretato (colui/colei che riunisce l’assemblea, o che parla all’assemblea, o che presiede l’assemblea). Essendo la radice ebraica declinata al femminile, qualcuno ha visto in questo poeta anonimo la figura di una donna.

Anche per quanto riguarda la datazione si possono fare solo delle ipotesi. Il libro è stato scritto intorno al 250-200 a.C. durante la dominazione dei Tolomei (successori di Alessandro Magno) che per tutto il terzo secolo prima di Cristo hanno cercato di globalizzare il mondo di allora imponendo la cultura greca (ellenismo), una lingua comune (koinè) e il loro modo di vivere.

L’intenzione di Qohelet è quello di aiutare gli israeliti a non lasciarsi prendere dal benessere della cultura ellenistica, (durante la dinastia tolemaica), e di non guardare con  nostalgia al tempo in cui Israele era grande con Salomone, perché l’estasi – il godere giustamente delle cose presenti – sta nel vivere alla presenza di Dio, a cui seguirà la ricompensa eterna nell’aldilà.

Le riflessioni di Qohelet sono le riflessioni di un credente che si allontana da Dio e non quelle di uno che non l’ha mai conosciuto. Per il credente, infatti, una volta conosciuto Dio e aver goduto della sua gloria, una volta allontanatosi, tutto diventa inutile, una vanità. Ed è il tema principale, la vanità di tutte le cose.

Il proposito che mi arriva, ascoltando la voce di Michele Placido che interpreta Qohelet, è quello di far risaltare la gloria del Signore rispetto all’ignoranza e alla limitatezza dell’uomo. L’autore cerca attraverso una profonda ricerca, di capire se c’è un’elevazione morale o progresso, per l’uomo lontano dal suo Creatore ed è costretto ad affermare che nessun bene creato può soddisfare in pieno l’anima.

Qohelet è un’opera che ha ispirato svariati artisti: Johannes Brahms, Robert Schumann, Pete Seeger (cantante folk statunitense) e anche il nostro cantautore Angelo Branduardi, nonché Petrarca e lo scrittore Luther Blissett.

Gli ebrei leggono il Qohelet durante la festa di Sukkot, una festa di pellegrinaggio della durata di otto giorni. Ricorda la vita del popolo di Israele nel deserto durante il loro viaggio verso la terra promessa, la terra di Israele. Durante il loro pellegrinaggio nel deserto vivevano in capanne (sukot). Sukot è la terza festa di pellegrinaggio durante cui tutti gli ebrei maschi sono obbligati a compiere un pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme. Si configura come un ringraziamento per i frutti del raccolto, poiché rappresenta la fine dei raccolti è considerata come un ringraziamento a Dio per la Natura, per i frutti che ha donato nell’anno trascorso.

L’ultimo capitolo, il dodicesimo, è quello che più mi ispira. I versi descrivono il declino dell’uomo nel tempo che si sta esaurendo.

Ricordati del tuo creatore
nei giorni della tua giovinezza,
prima che vengano i giorni tristi
e giungano gli anni di cui dovrai dire: «Non ci provo alcun gusto»;

prima che si oscurino il sole,
la luce, la luna e le stelle
e tornino ancora le nubi dopo la pioggia;

quando tremeranno i custodi della casa
e si curveranno i gagliardi
e cesseranno di lavorare le donne che macinano,
perché rimaste poche,
e si offuscheranno quelle che guardano dalle finestre

e si chiuderanno i battenti sulla strada;
quando si abbasserà il rumore della mola
e si attenuerà il cinguettio degli uccelli
e si affievoliranno tutti i toni del canto;

quando si avrà paura delle alture
e terrore si proverà nel cammino;
quando fiorirà il mandorlo
e la locusta si trascinerà a stento
e il cappero non avrà più effetto,
poiché l’uomo se ne va nella dimora eterna
e i piagnoni si aggirano per la strada;

prima che si spezzi il filo d’argento
e la lucerna d’oro s’infranga
e si rompa l’anfora alla fonte
e la carrucola cada nel pozzo,

e ritorni la polvere alla terra, com’era prima,
e il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato.


Per Qohelet la vecchiaia è come un lungo inverno al quale non segue più la primavera, ma la fine di tutto e la discesa nella tomba.

Una grande tristezza emana questo capitolo che descrive la fine del vecchio signore e della sua casa, con il filo d’argento della vita che si spezza per sempre.

Quando l’uomo muore il suo corpo ritorna alla terra dalla quale è venuto e il suo spirito ritorna a Dio che glielo aveva dato in prestito. Di più Qohelet non sa dire e non si aspetta. Così la grande forza poetica di queste immagini suggella la terribile affermazione che fa da filo conduttore a tutto il libro: Vanità delle vanità, dice Qohelet, tutto è vanità!

Ma Qohelet presenta in maniera occulta il significato della morte e della rinascita che ritroviamo ance all’interno di un percorso iniziatico.

Qui è racchiuso il segreto dell’eternità, il ciclo continuo della vita: si nasce, si muore e si rinasce.

Se non viviamo nella luce, con gli occhi e la mente di un bambino, non supereremo i momenti bui e scuri della vita e periremo.

La morte è una livella e in questa lotta tra vita e morte, per far vincere la vita dobbiamo credere nel cresatore, nella rinascita.

® Riproduzione consentita con citazione della fonte.

Giuseppe Mazzini – Doveri dell’uomo (1860)

Mdownloadigliorare voi stessi ed altrui: è questo il primo intento ed è la suprema speranza d’ogni riforma, d’ogni mutamento sociale. Non si cangiano le sorti dell’uomo, rintonacando, abbellendo la casa dov’egli abita: dove non respira un’anima d’uomo ma un corpo di schiavo, tutte le riforme sono inutili; la casa rabbellita, addobbata con lusso, è sepolcro imbiancato, e non altro. Voi non indurrete mai la Società alla quale appartenete a sostituire il sistema d’associazione a quello del salario, se non provandole che l’associazione sarà tra voi stromento di produzione migliorata e di prosperità collettiva. E non proverete questo, se non mostrandovi capaci di fondare e mantenere l’associazione coll’onestà, coll’amore reciproco, col sacrificio, coll’affetto al lavoro.

Per progredire, vi conviene mostrarvi capaci di progredire.

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